giovedì 7 aprile 2016

A Page of Madness (1926)


Un uomo lavora come inserviente in un ospedale psichiatrico per stare accanto alla moglie  ricoverata, ormai completamente alienata, sognando di farla fuggire.


Scrivere la sinossi di A Page of Madness è compito arduo. Non perché il film sia giapponese, ma per la totale assenza di didascalie supportanti il racconto che rimane quindi affidato alle sole immagini. Neppure queste ultime, però, consentono di chiarire tutti i punti, perché la narrazione è discontinua, a tratti delirante, dipanandosi tra continui flashback ed elementi onirici. All’epoca, d’altronde, i film muti in Giappone non necessitavano di intertitoli in quanto la loro proiezione era accompagnata dalla voce di un narratore in sala. Certo, in fondo c’è un messaggio abbastanza forte e chiaro di denuncia sociale, ma quello che lascia davvero senza fiato di fronte a questo capolavoro del cinema muto sono la potenza visionaria, la perfezione tecnica, la suggestione visiva. I primi minuti sono da mozzare il fiato, con la danza della ballerina che poi si scopre stare dietro le sbarre di una cella; segue poi un montaggio adrenalinico e una scelta delle immagini che in qualcosa ricorda l’espressionismo tedesco che evidentemente il regista Teinosuke Kinugasa conosceva bene (il suo film preferito pare fosse L’ultima risata di F.W. Murnau). 
E’ cinema d’avanguardia, sperimentale, eppure, a livello tecnico e formale, ineccepibile. Mi pare di poter rintracciare la sua influenza anche tra cineasti moderni come ad esempio Shinya Tsukamoto, un altro che di deliri se ne intende. L’accompagnamento musicale (assente però nell’originale versione del 1926) è assolutamente strepitoso, unico, a tratti inquietante ed è l’ideale complemento a questo affresco della pazzia che Kinugasa realizza con l’ausilio di lenti deformanti, doppie esposizioni, split screen, luci abbaglianti, inquadrature oblique e rovesciate, finti fulmini. Un campionario moderno che stupisce vedere così ben padroneggiato, considerando l’età della pellicola. Rimane indelebile anche l’interpretazione del protagonista, un sofferto Masuo Inoue che affronta il dramma della moglie, prima con ferrea volontà di cambiamentoe sperando di riuscire a fare fuggire l'amata, anche a costo di battersi con pazienti e dottori, e infine con rassegnazione. Splendido in questo senso il finale in cui sogna di far indossare le maschere agli alienati, regalando loro (oltre a sé e alla consorte) una felicità effimera. Un tocco delicatissimo in cui è riconoscibile la mano dello scrittore Yasunari Kawabata (premio Nobel per la letteratura nel 1968) qui co-autore della sceneggiatura. Elemento spesso presente nel film è poi l’acqua, a simboleggiare vita e morte e ad aggiungere un senso di oppressione a un’atmosfera già particolarmente claustrofobica, in cui emergono, improvvisi, i volti dei pazienti dell’ospedale, distorti dalla follia.

Poco conosciuto, ma imperdibile gemma del cinema muto, assolutamente da vedere. Per oltre 40 anni è stato ritenuto perduto, finché lo stesso regista, nel 1971, né trovò fortunosamente una copia nascosta in casa, copia poi ri-musicata l’anno successivo.


Reperibilità: E’ liberamente visionabile su Youtube.

Titolo: Kurutta Ippeiji
Produzione: Giappone (1926), b/n, muto, 59 minuti
Regia: Teinosuke Kinugasa
Cast: Masuo Inoue, Ayako Ijima, Yoshie Nakagawa, Misao Seki


Nessun commento:

Posta un commento