domenica 9 ottobre 2016

Un cane andaluso (1929)




Un uomo, dopo aver affilato un rasoio, si avvicina a una donna e, tenendone ben aperta la palpebra, le taglia a metà l’occhio sinistro. Si apre con questa scena, ancor oggi insostenibile a oltre novant’anni di distanza, il cortometraggio con cui Luis Buñuel e Salvador Dalì convertirono in linguaggio cinematografico i principi del manifesto surrealista. I due elaborarono una sceneggiatura, apparentemente senza senso, traendo ispirazione anche da immagini che avevano realmente sognato, come appunto quella dell’occhio reciso (un incubo di Buñuel) e quella successiva del buco nella mano da cui escono le formiche (la paternità del sogno in questo caso è di Dalì). Un cane andaluso è, però, un’opera che sfugge alla classificazione in qualsivoglia genere. Gli autori stessi lo concepirono come anti-artistico e anti-narrativo, per cui è vano cercarne un senso univoco o una chiave di interpretazione globale, anche se in qualche modo un filo logico di trama e di intenzione c’è, a dispetto delle indicazioni temporali del tutto fuorvianti fornite nel corso della pellicola. Evidente è l’intento provocatorio, anti-borghese e anti-clericale (che ancor più manifesto sarà nella successiva collaborazione del duo, il lungometraggio L’Age d’Or), nella ricerca voluta ed esasperata di immagini bizzarre e scioccanti, tanto più se cronologicamente collocate negli anni venti. 
Nel caleidoscopio messo in scena da Buñuel c’è spazio anche per insospettabili omaggi all’attività da regista di Buster Keaton e al quadro “Oscuro Sospetto” di René Magritte (che, pare, fu tra gli spettatori della prima proiezione del corto avvenuta a Parigi nel 1929). Certamente se si vuole cercare una possibile chiave di lettura, in considerazione di quello su cui i due spagnoli hanno più insistito ovvero le pulsioni sessuali negate, bisognerebbe ricorrere alle interpretazioni psicanalitiche dell’Es e del Perturbante teorizzato da Freud. Per chi volesse approfondire c’è una letteratura sterminata sul cinema di Buñuel, ma anche in rete si trovano parecchie teorie e analisi interessanti (mi permetto di suggerire questa). Per quanto riguarda l’aspetto essenzialmente horror,  possiamo limitarci ad osservare Un Chien Andalou in superficie, osservando le singole scene più forti per come appaiono. Oltre a quelle già citate, di nostro interesse potrebbe essere anche quella della mano mozzata in mezzo alla strada (una leggenda metropolitana totalmente infondata narrava che Dalì avesse convinto un uomo a farsela tagliare!). Ma è tutto il film, nel suo insieme, a produrre un effetto straniante e angosciante per lo spettatore, a partire da quell’indimenticabile occhio squarciato. Una piccola opera d’arte in movimento, onirica e surreale.
Curiosità: per realizzare la fatidica scena iniziale fu utilizzato il bulbo oculare di un vitello morto. La colonna sonora, identica alla musica d’accompagnamento che Buñuel scelse per la proiezione del 1929, fu aggiunta alla pellicola solo nel 1960. In una sequenza compare la falena “testa di morto” resa poi celebre da Il Silenzio degli Innocenti (libro e film).

Reperibilità: Nessun problema. Solo l’imbarazzo della scelta.
Titolo: Un Chien Andalou
Produzione: Francia (1929), b/n, muto, 16 minuti
Regia: Luis Buñuel
Cast: Pierre Batcheff, Simone Mareuil, Luis Buñuel, Salvador Dalì

Qui i primi 40 secondi del cortometraggio, con l’invito ai più sensibili ad astenersi dalla visione:


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